notainformativa_2016q2.pdf |
0 Commenti
Per scaricare gli articoli:
Per scaricare l'articolo:
Il Nord Est alla prova della discontinuità - Come sta cambiando il quadro dell’economia - Il lavoro rarefatto - Gli aspetti demografici del Nord Est e dell'Italia Per scaricare l'articolo:
Secondo l’Innovation Scoreboard (NdA: strumento adottato dall’Unione europea per misurare la capacità di esprimere innovazione da parte dei singoli Paesi) siamo al diciannovesimo posto della classifica, tra gli innovatori moderati, distanti dai leader, capeggiati da Svezia, Danimarca, Finlandia e Germania. Cuscinetto tra i bravi e i modesti, il gruppo dei follower, che porta in dote una lieta novella per i nostri colori: Emilia Romagna, Piemonte e Friuli Venezia Giulia sono lì, sopra la media nazionale, a inseguire le lepri dell’innovazione europea. “Favorire la contaminazione! Ecco la modalità giusta per stimolare l’innovazione nel mondo dell’impresa – spiega Alessandra Luksch, direttore dell’Osservatorio Startup intelligence, della School of Management del Politecnico di Milano. Il contatto tra startupper e imprenditori tradizionali, quelli in grado di riconoscere la capacità dell’innovazione nella generazione del valore, produce una miscela vincente”.
I primi sono in grado di percepire, un po’ come gli artisti, le tendenze, anche quelle latenti, dell’innovazione; i secondi possono, invece, mettere a disposizione esperienza, relazioni di mercato, solidità economico-finanziaria. “L’Osservatorio Startup intelligence – prosegue Luksch – è nato per raggiungere tre obiettivi ambiziosi. Prima di tutto fornire un aggiornamento continuo sull’innovazione tecnologica proveniente dalle startup nazionali ed estere; in secondo luogo dare un supporto all’individuazione di startup, che potrebbero giocare un ruolo all’interno di business innovativi. Infine, proprio stimolando il contatto tra innovazione e tradizione, cerchiamo di far crescere la cultura e le competenze imprenditoriali all’interno delle imprese”. La Ricerca, iniziata a ottobre 2015, terminerà a maggio e toccherà sei ambiti principali con alcuni approfondimenti intermedi: dai wearable, che rappresentano la nuova frontiera per il monitoraggio delle prestazioni sportive o delle condizioni di salute, ai social network, pervasivi sia nella sfera privata, sia in quella lavorativa, dall’eCommerce, che apre nuove opportunità anche al mondo delle PMI, al digital/mobile payment, che rende gli smartphone l’oggetto “più prezioso” da custodire, dalla sensoristica ambientale, in grado di produrre miglioramenti dall’agricoltura all’arte con la conservazione dei beni culturali, all’efficienza energetica, uno dei grandi temi su cui anche l’intero pianeta sta discutendo da tempo. “I nostri workshop – aggiunge il Direttore dell’Osservatorio - cercano di rendere evidente alle imprese tradizionali come avviene la gestione dell’innovazione all’interno delle startup, stimolandone l’emulazione. D’altro canto queste sono anche occasioni per capire come le startup possano trasformarsi in fornitori. I casi concreti, anche di matrice internazionale, sono presentati alla platea dei partecipanti. Il dibattito è sempre vivace e costruttivo e, soprattutto, efficace”. Il dialogo strutturato e regolare apre a nuove forme di impresa e di collaborazione. Le startup digitali possono e devono diventare parte integrante e integrata del più ampio panorama imprenditoriale. Rappresentano un’occasione per incrementare l’innovazione nelle direzioni ICT delle imprese, per investire in Ricerca e Sviluppo, attraverso fonti esterne ma collaborative, per ampliare l’offerta di prodotti e servizi, magari diversificando il business, senza trascurare la capacità del modello di stimolare l’innovazione organizzativa. Cos’è emerso da questi incontri? Quali tendenze vengono intercettate? “Raccontare attraverso gli esempi – conclude Alessandra Luksch – è utile per restituire la dimensione tangibile di un avvenimento. Ricordo due incontri: quello sul tema del social business e quello sulla sensoristica ambientale. In ambito social si sono riscontrate diverse tendenze, che qualificano i molteplici ambiti in cui queste iniziative si stanno muovendo. I social network entrano sempre più nel cuore della catena del valore aziendale: o come canale per l’acquisizione di informazioni, per esempio sugli utenti presenti o come fonte alternativa a supporto di alcune funzioni aziendali, come il marketing e la comunicazione, le vendite e la gestione delle risorse umane. La sensoristica ambientale entra, invece, tra i grandi fenomeni digitali, perché collegata all’internet delle cose. È il tema del momento, che riscuote interesse strategico da parte delle più importanti aziende del mondo, con tassi di crescita stimati tra il 20% e il 30%”. di Claudio Rorato «Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Lapidaria ma incontestabile, questa asserzione del filosofo francese Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di informazioni e di dati attraverso la comunicazione digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile, avvolgendo e talora strangolando il nostro globo. Mai come ai nostri giorni le distanze s’accorciano e persino svaniscono, permettendo un rimescolamento di etnie e culture.
D’altro lato, però, a questa indubbia e pur importante “bulimia” operativa corrisponde un’anoressia di valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa delle risposte strumentali non riesce a evadere le domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il danese Soeren Kierkegaard, già nell’Ottocento rappresentava simbolicamente questa situazione: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». L’apparente ottimismo versato a piene mani dalla scienza e dalla comunicazione di massa non riesce, comunque, a nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la disperazione degli esodi di massa, la devastazione ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri, l’anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali sempre più marcate, l’impennata della disoccupazione, gli squilibri culturali, i fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad artigliare le coscienze e le esistenze personali e comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a interpellare tutta la piramide della società, dal vertice politico ed economico fino alla base popolare. Per questo l’impresa italiana ha voluto consacrare una giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di risvegliare e rinvigorire l’impegno comune ad opporsi a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli imperativi per edificare un ethos comune che affronti questo orizzonte complesso e complicato sono quelli di sempre ma devono essere declinati con nuovi accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di vita sono state annodate sotto un denominatore comune che ha dato il titolo al convegno, il fare insieme. Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più generico per classificare ogni tipologia di azione, nella nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che significa “mettere, fondare, posare” e rimanda quindi a una costruzione. Il verbo “fare” è, poi, contenuto in molti altri termini italiani, tra i quali brillano l’“affetto” e il “difetto”. Sono un po’ i due volti estremi del “fare”, quello luminoso e appassionato della dedizione e quello del limite e dell’imperfezione: le mani che operano possono, infatti, stringersi e procedere “insieme”, ma possono anche rinchiudersi a pugni. Ecco perché è necessario coniugare il verbo “fare” con l’avverbio “insieme” che ha etimologicamente alla base l'aggettivo “simile”. È, quindi, la riscoperta della comune umanità e fraternità, l'essere tutti “figli di Adamo”, prima che essere segnati da altri connotati etnici, storici, culturali e sociali. Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo francese, Emmanuel Lévinas, l’importanza del volto, dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel “fare”, un aspetto capitale è certamente quello del lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia, che è pur sempre “il grande codice” della nostra civiltà occidentale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15). Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per nulla il latino labor, da cui deriva il nostro “lavoro”, significa “fatica” e “dolore”, e in francese e spagnolo il “lavoro” è travail e trabajo. Tuttavia l’uomo che è inerte o paralizzato o disoccupato sente una ferita nell’anima. Per questo “fare insieme” è costruire un mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è anche creare concretamente le condizioni perché tutti possano operare con le loro mani e la mente, “coltivare e custodire” il mondo e sviluppare la loro stessa esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo l’ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono». © RIPRODUZIONE RISERVATA Il seminario «Fare insieme» in Vaticano In vista del seminario di Confindustria «Fare insieme» in programma per venerdì 26 febbraio in Vaticano (Centro Congressi Augustinianum) pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Ravasi Per scaricare l'articolo:
Per l'Italia la sfida è immensa, perché parte da basi culturali arretrate: modesta conoscenza dell'inglese, ritardi nell'alfabetizzazione digitale, scarsa frequentazione delle facoltà scientifiche. Poi c'è la questione PA. Ma ancor più grave il ritardo delle imprese rischia di mettere a repentaglio l'innovazione del mercato di Gildo Campesato
Nel recente Forum di Davos una posizione centrale è stata riservata a Industria 4.0. Ciò la dice lunga sull’importanza e gli impatti (anche devastanti a non saperli gestire) che la rivoluzione industriale in corso avrà per le economia mondiali, gli equilibri tra i Paesi, le dinamiche sociali. Secondo uno studio del WEF, nei prossimi cinque anni le 15 maggiori economie perderanno 7 milioni di posti di lavoro “tradizionali”. In aggiunta, le nuove tecnologie, ne creeranno appena 2 milioni. Magari le cifre saranno sbagliate in eccesso (ma potrebbero esserlo anche in difetto), ma il trend è quello. Internet mobile, cloud, big data, nuove fonti energetiche e relative tecnologie, Internet of the things, crowdsourcing, sharing economy, robotica avanzata, veicoli autoguidati, piattaforme P2P, intelligenza artificiale, machine learning, manifattura avanzata, stampa 3D, materiali innovativi, biotecnologie, genomica: sono gli agenti di cambiamenti profondi. Le società che sapranno accompagnarli sono destinate ad avere successo, le altre declineranno. Per l’Italia la sfida è immensa. Perché parte da basi culturali arretrate. Si pensi alla modesta conoscenza dell’inglese, ai ritardi nell’alfabetizzazione digitale, alla scarsa frequentazione delle facoltà scientifiche. Ci sono poi gli ostacoli di una pubblica amministrazione ancora improntata da logiche, mentalità, regole, catene gerarchiche e procedure impostate sul processo cartaceo, non sul servizio erogato. Ancora più grave è il ritardo delle imprese, perché proprio da loro dovrebbe venire la spinta più forte al cambiamento tecnologico ed è su di loro che si faranno più sentire gli impatti del mercato globale 4.0. Secondo uno studio dell’Ucimu, quasi l’80% delle nostre aziende non ha un sistema informatico integrato negli apparati produttivi. È questa la situazione di molta Italia. A cambiarla non basteranno né l’atteso (da tempo ormai) piano del governo Industria 4.0, né incentivi all’innovazione che rischiano di essere poco più che aspirine. Ci vuole, invece, uno sforzo complessivo a tutti i livelli e da parte di molteplici attori. Lo Stato deve stimolare le iniziative e concentrare i suoi interventi su poche tecnologie di punta in cui l’Italia può eccellere. Non è più il tempo di una fabbrica per ogni campanile. Nemmeno se digitale. |
AutoreScrivi qualcosa su di te. Non deve essere niente di ricercato, solo una descrizione generale. Archivi
Agosto 2016
Categorie |